Chi l’avrebbe detto che la brillantina fosse un prodotto del tempo delle piòle, al quale neanche Bertu al crin (e nel nome c’è già tutto!) rinunciava?

Questo è solo uno dei tanti aneddoti che ci racconta Centini in questo imperdibile manuale di antropologia della piòla dove trovano il loro posto epiteti come gadan, badola – termini che, per la verità, anche io uso spesso più per il vezzo umoristico che per il loro vero significato (che non è poi così certo) – o ancora falabrach o balengo intesi come libertà di espressione tra una cerchia di persone che volevano rinunciare ai convenevoli.

Centini ci parla di tomin e anciove al verd, pess an carpion, frittate e giardiniera, cibi prelibati di quelle merende sinoire che nulala avevano a che vedere con gli apericena della movida, di Barbera (il Maiuscolo è d’obbligo) che scorreva a damigiane (meglio se con la gomma a risucchio) e c’è posto anche per il chinotto, per il grigio-verde e per lui, il re incontrastato, il vermouth che la tradizione vuole inventato nella piccola bottega di piazza Castello da Antonio Benedetto Carpano.

La piòla era il posto ideale per cantare e giocare: la tampa lirica, antesignano del più moderno karaoke e quel tavolo quadrato con una persona per lato, ovviamente con cicca e bicchiere, sul quale scendevano le carte.

C’erano anche piòle nelle quali era meglio non entrare per non fare brutti incontri: erano quelle dove si davano convegno i barabba e i gargagnan, concentrate soprattutto nella zona di Porta Pila, nella contrada del Gambero e al Moschino.

Nella cultura della piòla hanno un loro posto anche le tabachin-e, quelle che, loro malgrado, puzzano “coma ‘d crine” perché il prodotto del loro lavoro, il Toscano, è uno dei protagonisti incontrastati delle piòle, il cui fumo, insieme a quello del canun della stufa d’inverno pizzica il naso e annerisce i muri.

Tavoli di legno segnati dal fondo del bicchiere o dalle bruciature delle sigarette lasciate in equilibrio ai bordi, banconi dozzinali e stagere di bottiglie, oggetti quasi scomparsi come i salini o la bottiglia del sifone da selz, detti popolari e canzoni portano il lettore in un mondo ormai pressoché perduto ma ben radicato nella tradizione piemontese.

In questo libro la piòla diventa l’occasione per parlare di tutto quello che in qualche modo evoca quel mondo e, ancora una volta, le persone sono al centro della narrazione perché di fatto la piòla esisteva grazie agli avventori che per i motivi più diversi la frequentavano. In piòla si scappava dalla moglie o dalla noia, si beveva, si mangiava, si cantava, si giocava, si progettavano malefatte, e insomma, in un modo o nell’altro si stava insieme e si socializzava.

Come gli altri libri di Centini che ho avuto il grande piacere di leggere (Bordelli Torinesi. Quando le case chiuse erano aperte, Editrice Il Punto 2013, e Strade d’inchiostro. Scrittori, luoghi e storia a Torino, COEDIT 2015), non posso che apprezzare questo nuovo lavoro per l’ironia e la leggerezza della scrittura con la quale espone la completezza delle informazioni e l’accurata e meticolosa ricerca di particolari. Tutti pregi che rendono la lettura oltremodo piacevole e fanno sentire al lettore il gusto antico di quel bon bicer ed vin.

Quei posti spartani e un po’ sporchi sono l’icona di un mondo che non c’è più che, tuttavia, come avverte Centini nelle prime pagine del libro, non è detto che sia stato proprio il tempo migliore della nostra vita.

 

 

Editore: Editrice Il Punto

Anno di pubblicazione: 2019

Pagine: 250

Prezzo di copertina: 15,00

 

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Siamo partiti con l'idea di segnalare libri che hanno un'ambientazione torinese attraverso recensioni, incontri e interviste con gli autori ma ci piace dare spazio a quegli autori che a Torino vivono e lavorano anche se i loro personaggi sono di Roma, di New York o di un luogo immaginario. Siccome non ci piace solo la narrativa, faremo qualche incursione dentro la Storia e le tante storie che hanno fatto la città.

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