Alessandra Montrucchio è nata e cresciuta a Torino. Vincitrice del Premio Calvino nel 1995 (con una serie di racconti pubblicati da Marsilio con il titolo “Ondate di calore”), ha pubblicato numerosi romanzi, fra cui “Cardiofitness”, “Macchie rosse” e “Fuoco, vento, alcol”. La sua ultima opera è una storia d’amore per ragazzi ambientata nella Berlino degli anni Ottanta.
Alessandra, che da anni tiene anche una rubrica (“Cattive ragazze”) su un noto inserto del giornale torinese La Stampa e insegna scrittura creativa alla scuola Holden, ci parla in quest’intervista del suo speciale rapporto con la città in cui vive.
Quali sono i luoghi di Torino cui ti senti più legata o più vicina?
Soprattutto il centro, e in centro soprattutto la zona del Quadrilatero, via Garibaldi, Porta Palazzo, piazza Castello… la zona in cui vivo. Ho abitato in altri quartieri, prima, ma qui, in zona pedonale, dove residenti e commercianti vivono e si comportano come se stessero in un piccolo borgo, tra parchi e campane che suonano a ogni quarto d’ora, mi sento nel mio elemento.
Ti senti torinese?
Mia madre è romana, mio padre era astigiano e gli altri (pochi) parenti che compongono la mia famiglia stanno a Ferrara o a Roma. Però sì, mi sento torinese. Qui sono nata e cresciuta, qui abito da sempre. Non vorrei vivere da nessun’altra parte.
Trovi che Torino possa aver influenzato il tuo percorso come scrittrice? In che modo?
Be’, qui nel 1993 ho fatto il corso di lettura e scrittura creativa – all’Unione culturale Antonicelli, con Baricco e Voltolini – dove per la prima volta ho osato far leggere ad altri ciò che scrivevo. Sono stati i miei compagni di quel corso a convincermi a partecipare al Premio Calvino. Se non l’avessero fatto, io non avrei mandato i miei racconti al Calvino, non avrei vinto e di conseguenza non avrei pubblicato. Se poi parliamo di influenze più profonde, sicuramente ci sono, ma fatico a individuarle e definirle con precisione. Sono una persona razionale, solitaria e incline a quello che si dice understatement. Questo fa di me una torinese? Può darsi; probabile. Questo si riversa nel mio modo di scrivere? Non ne ho idea.
Ci sono, fra le opere che hai scritto, alcune maggiormente influenzate dallo spirito della città in cui vivi o dal suo tessuto sociale?
Spesso quello che scrivo si svolge qui, nella mia città: preferisco scrivere di ciò che conosco. E forse il libro in cui Torino è più presente a vari livelli, non solo come sfondo ambientale, è Cardiofitness. La protagonista viene dalla buona borghesia torinese, il protagonista è figlio di immigrati dal sud e fa parte del proletariato urbano raccolto intorno alla Fiat (per altro, il romanzo è degli anni Novanta). E il contesto in cui i due protagonisti si muovono è la Torino di quegli anni: a metà strada fra provincia e metropoli, con abitanti originari di ogni parte d’Italia (e di qualche parte del mondo).
C’è un autore o un’autrice torinese che stimi particolarmente?
Ce ne sono tanti. Remmert, Farinetti, Perissinotto, Bertola, Oggero, Demarchi, Ragagnin, Peano, Paolin, Geda, Bajani, Longo, Varvello, Voltolini, e chissà quanti ne sto dimenticando. Li conosco, li stimo non solo come scrittori ma come persone. Non amo i cosiddetti ambienti intellettuali, ma quello torinese è uno dei migliori.
Trovi che Torino si presti bene a coltivare talenti letterari o a fornire lo sfondo delle vicende di romanzi e racconti?
Mi viene in mente una cosa che, molti anni fa, disse lo scrittore Andrea Demarchi: disse che la fortuna di Torino, da questo punto di vista, era quella di essere una città periferica, e che è alla periferia che succedono le cose. Lì può esserci una forza che fa girare le cose, mentre il centro sta fermo. Aveva